Se le piazze si muovono
Una vasta eco hanno suscitato talune manifestazioni di piazza che si sono svolte nelle settimane scorse in alcune città d’Italia. I motivi di tanto interesse sembrano essere almeno tre. In un momento storico – questo è il primo motivo – in cui si ritiene che in Italia prevalga un pensiero unico, vedere scendere in piazza migliaia di cittadini per manifestare le loro idee, spesso in contrasto con talune scelte del governo, costituisce un segnale importante per il nostro sistema democratico; specialmente in un momento in cui si constata una sconfortante crisi dei partiti. Il secondo motivo, strettamente legato al primo, è che le manifestazioni di cui parliamo, non sono state monopolizzate né dai partiti, né dai sindacati. Anche se in quasi tutti gli eventi non è mancata la presenza, peraltro poco invadente, di esponenti di partiti e di sindacati che hanno partecipato senza esporre striscioni e bandiere. Terzo motivo, il protagonismo delle donne. Quasi tutte le manifestazioni, con l’eccezione di quella contro il decreto sicurezza- che ha visto la partecipazione del sindaco di Riace, Mimmo Lucano- l’iniziativa è partita da donne impegnate nelle varie professioni che sono riuscite, a loro volta, a coinvolgere professionisti, imprenditori, uomini di cultura, giovani e gente comune. L’utilizzo dei social e il “passa parola” sono stati i mezzi attraverso i quali è stato coinvolto il gran numero di partecipanti. Ovviamente queste iniziative non sono state gradite alle forze di governo che, per bocca di Salvini e Di Maio, sostengono di operare con il consenso di sessanta milioni di italiani, neonati compresi. Le due manifestazioni che, su tutte, hanno avuto maggiore risonanza e che sono risultate più sgradite ai governanti, sono state quelle di Roma e di Torino, le due città governate entrambe da due sindaci espressione del movimento Cinque stelle. A Roma sabato 27 ottobre, si sono riunite in piazza Campidoglio, sotto gli uffici della sindaca Raggi, oltre diecimila cittadini. La protesta, denominata “Roma dice basta” è stata organizzata da sei donne, tutte professioniste e mamme di famiglia, “avvilite per quanto stava succedendo a Roma”. Si sono riunite per mesi, hanno studiato i problemi e poi hanno lanciato l’idea ai cittadini romani che, come si diceva, sono corsi numerosi all’appuntamento. Il sabato successivo, 10 novembre, analoga manifestazione a Torino, alla quale hanno partecipato oltre trentamila cittadini, uniti dalla volontà di dire “Sì alla Tav”. Anche qui, le organizzatrici, tutte donne: sette professioniste e mamme di famiglia, bollate dai politici, a mo’ di sfottò, con l’appellativo “madamine”. Stanche di sentire ripetere dalla nuova classe dirigente una serie di no – no Tav, no Tap, no vaccini, etc – sono riuscite a coinvolgere un gran numero di cittadini torinesi, compresi coloro che per pigrizia sono stati sempre restii a partecipare a manifestazioni. A Torino, nella piazza Castello, come d’incanto, si è trovata tutta la società civile vogliosa di impegnarsi non solo per la Città, ma per il Paese intero, con l’intento di cambiare con un deciso “sì”, i tanti “no” portati avanti dalle forze di governo. Ma anche per non disperdere i benefici di tante realizzazioni e conquiste fatte in ogni campo con il sacrificio di tutti i cittadini, di qualsiasi estrazione politica e sociale. E ciò nonostante i nuovi governanti, speculando sulle tante situazioni di sofferenza, si affannino a presentare un’Italia come un cumulo di rovine. Si è trattato sicuramente di iniziative utili e provvidenziali a risvegliare l’interesse per la vita delle città e del Paese intero e quindi da ripetere e moltiplicare. Ma ancora insufficienti a formare una vera coscienza civile. Il rischio, infatti, è che, finita la manifestazione, tutto torni come prima, nella più completa indifferenza dei cittadini. «Se non si ricomincia anche a livello di movimenti, di associazioni, di parrocchie – ha affermato recentemente il Cardinale Bassetti, Presidente della Cei- rischiamo davvero che la politica venga disertata dai fedeli, con il rischio di consegnarla a chi persegue solo i propri interessi”. La parola chiave, ha aggiunto, deve essere “educare alla partecipazione”, perché “non tutti possono fare i governanti, ma tutti siamo elettori».
di Pino Malandrino