Lo spettro del coronavirus e i “valori” del Festival di Sanremo
di + don Tonino, Vescovo
Uno spettro si aggira per il mondo e per l’Europa. E fa tanta paura. Lamento, pianto e stridore di denti per il coronavirus che semina morte. I megafoni di tutti i governi, all’unisono, invitano a non lasciarsi prendere dal panico e bandire gli isterismi. È tutto sotto controllo. Il virus è stato isolato, grazie all’eccellenza della scienza medica italiana e l’Organizzazione mondiale della sanità ha dettato gli orientamenti necessari affinché la malattia faccia meno morti e, comunque, non le faccia da “noi”: da noi dell’Occidente opulento o del Nord del mondo. E non era un “villaggio globale”, il mondo? La Cina è presente massicciamente in Africa, a costruire le strade in cambio dello sfruttamento dei ricchi giacimenti di quella terra martoriata, dalle continue guerriglie e da iniqui massacri. I confini del proprio territorio possono essere salvaguardati dagli invasori. Tuttavia, noi “respiriamo su un pianeta senza aria perché il buio non ha un nome”, ha cantato Tecla a Sanremo 2020. Questo coronavirus – precedentemente mai identificato nell’uomo- è come quel demone dei Vangeli chiamato “Legione” (“perché siamo in molti): è una vasta famiglia di virus noti per causare malattie come la MERS, la sindrome respiratoria mediorientale, SARS la sindrome respiratoria acuta, dal comune raffreddore a malattie più gravi che portano alla morte. C’è da preoccuparsi davvero, ma non esagerare: attenzione comunque all’infodemia, all’espandersi di notizie scorrette, foriere di falsi allarmismi e di angoscia. Perciò, in Italia e in mondo visione, il festival di Sanremo è stato salutato da molti come una possibilità di una buona distrazione nazional-popolare: godetevi il Festival. Gli apocalittici ritornano sul tema della fine del mondo. E, comunque, potrebbe anche essere la fine di un “certo mondo”, quello di un materialismo sfrenato che rincorre il benessere con lo strumento della tecno scienza, a ogni costo. Perciò, i più creduloni insistono sull’immagine del Dio che punisce la tracotanza umana con i suoi castighi e le sue piaghe, mentre al limite si potrebbe ricorrere alla hybris greca per spiegare il fenomeno della natura che si ribella allo sfruttamento illimitato e insostenibile. Il Dio cristiano è buono (ma non buonista), è misericordioso (ma non misericordista), la sua giustizia sta nel “mettersi accanto all’uomo come suo compagno di viaggio” per tutte le cose belle di cui è capace l’umanità.
È pro-affettivo dall’eterno, soffre con l’uomo, si carica dei dolori di tutti – in Gesù crocifisso è l’uomo di tutti i dolori, come Maria, sua madre e madre nostra, sotto la croce, è l’addolorata per tutti- ed è prossimo a ogni persona. Lungi dal castigare, perdona; lungi dal mandare la morte agli altri, se l’addossa. Dio condivide, si immedesima, si prende cura. E chiede a chi crede di fare lo stesso: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi».
Ecco la chiave cristiana per capire e interpretare i valori di un Festival che intenzionalmente è stato costruito per elargire “buoni pensieri” e proclamare “parole giuste” contro il sessismo, contro il femminicidio e la violenza sulle donne, contro la sopraffazione di tutti i discriminati della terra. Tempo e spazio è stato dedicato anche alle “parole” a favore della crescita dei figli in un ambiente sano, in famiglia e a scuola, contro il bullismo. Così Piero Pelù canta una favola rock per il suo nipotino che sta per nascere – “sei il benvenuto al mondo… spingi forte spingi forte salta fuori dal quel buio (Gigante)” e ci ricorda però che non siamo più generativi e le culle sono vuote. Poi, Paolo Jannacci si impegna in una ballata moderna sul padre preoccupato per la crescita della sua bambina, vegliandola di notte, mentre dorme, e dice a tutti i genitori post-moderni che i figli si crescono donando loro tempo: “e il tempo che non ti do, è tempo perso” (Voglio parlarti adesso). C’è chi come la Levante ha proposto un canto inclusivo (Tikibombom) di chi vive ai margini, di chi esiste nel rovescio della storia – “Hey tu, anima in rivolta, questa vita di te non si è accorta” -, di chi si sente speciale e non viene capito, puntando sulla ricchezza della diversità. Tanti valori messi in campo – per lo meno identificati come necessari per vincere sul degrado umano cui stiamo assistendo: “quanta poca umanità / ho voglia di guardarti dritto in faccia” (Nell’estasi e nel fango di Zarrillo). E Faustini in Nel bene e nel male: “sono stanco di riempire più lo stomaco del cuore”.
Decisiva però è stata l’indagine sul valore di tutti i valori, su ciò per cui un valore è un valore, l’essenza del valore che è Valore con la “V” maiuscola, l’amore cantato a Sanremo. Le metafore non sono mancate, anzi si sono sprecate. Quando l’immaginazione creativa si sbizzarrisce, è così. Con l’avvertenza critica a non scambiare l’amore con la dipendenza (Tecla in 8 Marzo) o perdersi nelle apparenze, come invece sostiene Elodie in Andromeda: “non lo saprai cosa per me è il vero dolore/ confondere il tuo ridere per vero amore”. Certo, bisogna andare un po’ più a fondo rispetto al formicolio del cuore o all’emozione del ventre. Nell’amore c’è di più: “Stracciarsi via la pelle e volersela scambiare, perché amarsi è respirare i tuoi respiri” (Tosca in Ho amato Tutto). C’è anche il perdono e la comprensione a chi ti ha bullizzato a scuola: “No ma quale odio/ ma no nessun rancore /eri tu che stavi male/ la forza del più forte è chiusa in un sorriso” (Sentieri in Billy Blu). Gabbani ci ha spiegato qual è il meccanismo complesso che governa l’armonia dell’amore: “che sei tu che mi fai star bene quando io sto male e viceversa”. Certo è la risposta di una canzone, “senza starci troppo a ragionare”. Non ci si impegna a cercare nelle “meccaniche celesti” (Battiato).
Sono parole che rischiano lo slogan. È il festival dei valori. Diremmo con Zarrillo: “Alle parole non credo quasi mai”. Si pensi – ad esempio- al valore della sincerità nei rapporti di amicizia in Sincero di Morgan e Bugo. Non hanno aspettato nemmeno che finisse il Festival per dimostrarne l’ipocrisia. Anche dovessimo trovarci in un reality show, costruito ad arte per attrarre l’attenzione e far soldi. Chi canta dovrebbe essere “testimone delle cose che dice”. Un po’ come si chiede a un prete che predica dal pulpito e non vive di conseguenza: “predica bene e razzola male”, si dice per denunciarne la falsità. Vale per i tutti valori che sono nomi della lingua, parole del linguaggio, e rischiano di rimanere nelle stratosfere dell’etere senza “incarnazione”. Ecco, dunque, la parola magica: senza carne, nessun valore proclamato è un valore autentico. In questo campo il nominalismo è grande. È necessaria la testimonianza, così le parole “suonano e cantano” la loro rettitudine, la loro verità giusta, la loro giustizia vera. Così è accaduto con Lula Jebreal, le cui parole contro il femminicidio hanno raccontato la vita nel dramma di tante donne stuprate e violentate. Le parole hanno bisogno di “sangue” (sede della vita degli esseri umani) per essere vere e giuste. Di fronte alla testimonianza le parole restano sullo sfondo, con delicatezza, retrocedono e talvolta non servono più, perché a parlare è l’energia della vita, come con Cottini, il ballerino malato di sclerosi multipla che non si lascia abbattere dalla patologia degenerativa e diventa un potente “segno” altamente educativo per i giovani, per invogliare positivamente a fare, a non mollare davanti alle difficoltà, e a inseguire i propri sogni sempre. E che dire di Paolo Palumbo con SLA (uno tra i seimila guerrieri che combattano con questa terribile malattia) le cui parole hanno emozionato il mondo, convincendo tutti sulla verità spesso camuffata: la vera disabilità è quella del cuore, quando c’è indifferenza e non c’è empatia con chi soffre. Io sto con Paolo, canta la carne dell’amore, quella “incarnazione” che, mancando, dissolve ogni valore, anche quello più grande, l’amore.