Il valore educativo e diseducativo delle canzoni pop
Uno sguardo veloce ai testi delle nuove canzoni di Sanremo e si nota subito un bisogno profondo di senso, la voglia di imparare resistendo al degrado, desiderio di resilienza umana, come in 8 Marzo della giovanissima Tecla: «ci vuole forza e coraggio, lo sto imparando vivendo ogni giorno questa vita; comunque dal dolore si può trarre una lezione; e la violenza non ha giustificazione». E la bella canzone sul bullismo di Marco Sentieri, Billy blu che dice al bullo – salvandogli la vita – «no ma quale odio, no nessun odio, eri tu quello più debole, tu dentro stavi male». Si giunge perfino a punte mistiche, con Matteo Faustini in Nel bene e nel male: «perché dentro quel rancore si può ancora perdonare». Frasi estrapolate? No, testi con una certa coerenza, alla ricerca di un codice etico capace di rilanciare i giovani in un futuro in cui l’essere umano cresca con l’uomo – «nonostante che a volte uomo non vuol dire essere umano per tutto il sangue che è stato versato» (Tecla). Tante proposte e tanti messaggi positivi sull’amore universale che pur essendo tale non è aleatorio, ma sempre incarnato dentro drammi umani ed esperienze di persone speciali, magari ai margini o sopra le righe: «ti prego insisto, fatti il segno della croce e poi rinuncia a Mefisto siamo chiese aperte a tarda sera, siamo noi; siamo l’amen di una preghiera, siamo noi» (Levante).
E poi c’è Junior Cally (rapper noto al pubblico per il suo linguaggio sessista e violento contro le donne). Ed è subito polemica. Di mezzo c’è un diffuso senso di scandalo: questa volta non è la frangia “religiosa” della popolazione (facilmente criticata di “beghinismo” e bigotteria), ma quella di organizzazioni sociali e di istituzioni politiche. Gruppi organizzati a chiedere l’esclusione dal palco di Sanremo di Junior Cally: un giovane che, anche nella foto-immagine di Sorrisi e canzoni in prima fila è ritratto con la sua maschera. Il suo volto è la sua maschera o le tante maschera che indossa. Perché, a quanto pare, vuole presentarsi “fuori da ogni identità”, senza una riconoscibilità che lo inquadri. Con il brano che presenterà a Sanremo – No grazie – intende essere un “antipopulista e folle”, dice: «sono un ragazzo semplicissimo che ha un sogno nel cassetto e va a prenderselo». Una identità ce l’ha: Antonio Signore ha 28 anni.
Tanto basta per capire che non è un ragazzino e sa bene quello che fa e che scrive: non ci sta e dice “no grazie” a quanto lo possa omologare a destra o a sinistra o al centro: politicamente corretto? No grazie; puntare il dito contro e fare il populista? No grazie; «non fare niente tutto il giorno e proclamarmi artista? No no no-no grazie». È fuori da tutto, dalle righe e dalle rime e se la gente “fa buon viso a cattivo gioco”, Junior il mascherato fa l’opposto: «faccio cattivo viso a buon gioco». Al suo rap (forse troppo violento, per lui “parlare di eccesso non eccessivo”) non vuole rinunciare e dice “no grazie” anche chi gli consiglia di smetterla con questa storia del rap per incanalare la sua creativa fantasia a scrivere canzoni d’amore per la sua ex, oppure “trovarmi un lavoro serio e diventare yes man, insultare tutti sì, ma solo nel web”.
No grazie è una canzone di un mascherato che vuole comunque dire qualcosa di sé, farsi conoscere, presentarsi: «sono il fuori programma televisivo». Addirittura «spero che si capisca che odio il razzista» e nel passaggio è possibile intravedere un affondo “politico”, perché non sta con Salvini (e la sua Lega) – che sarebbe «il razzista che pensa al paese ma è meglio il mojito», come anche l’altro Matteo, «il liberista di centro sinistra che perde partite e rifonda il partito». E se qualcuno si chiedesse – “questo da dov’è uscito?” – la risposta è semplice: «dal terzo millennio col terzo dito». Si, Junior Cally appartiene alla generazione dei “nati liquidi”, di quelli che per quanto “fuori” vivono una certa smania affannosa di “notorizzare la propria individualità”. Con l’abbigliamento manifesta la propria disponibilità a rinunciare ai simboli dell’identità comune e la voglia di incarnare identità diverse e plurali in ogni cangiante istante. Il camaleonte è la metafora giusta per capire la direzione. Eppure, la contraddizione emerge lampante nei segni del corpo, stracarico di tatuaggi, magari indelebili e quindi portatori di un impegno duraturo e serio della propria identità (non solo di un momentaneo capriccio): «il tatuaggio, miracolo dei miracoli, segnala al contempo l’intenzionale stabilità (forse anche irreversibilità) dell’impegno e la libertà di scelta che contraddistingue l’idea di diritto all’autodefinizione e al suo esercizio» (Z. Bauman, in Nati liquidi).
Nella condizione liquida giovanile delle società liquide e del pensiero liquido e gassoso, è difficile stabilire, però, cosa va bene e cosa non va. Chi stabilisce i “limiti”, i “paletti” del buon gusto, del pudore? Est modus in rebus, si diceva in un latino che tutti capiscono. Un tempo la censura era una sorta di competenza della religione (e della Chiesa cattolica in Italia). Ora è tutto cambiato, ovviamente. La democrazia – ma in verità è la democrazia ridotta a procedure e vuota di ogni riferimento valoriale, a tal punto che democraticamente non si può nemmeno giungere a stabilire cosa sia un valore condivisibile per tutti, nell’attuale dittatura del relativismo e del (non) pensiero unico – sembra incapace di garantire una protezione valoriale agli stessi simboli religiosi, spesso vilipesi e ridicolizzati in nome della liberà di pensiero, di espressione e del diritto all’ironia. Le libertà individuali – si fa per dire che siano poi davvero “libertà” – sono esaltate senza “limiti”, mentre è ormai perduto il riferimento all’appartenenza comunitaria e a un quadro valoriale di riferimento che debba imporsi a chiunque voglia condurre una convivenza pacificata tra esseri umani.
Ora, però, la cosa è diversa, perché nonostante il trend liquido della cultura, un quadro normativo tende a emergere come l’araba fenice dalle ceneri della distruzione libertaria dei processi culturali degli ultimi trent’anni. Così, il cambiamento climatico porta i nostri giovani sulle piazze a gridare la loro volontà di vivere respirando “aria pura” e questo diventa un “valore non più negoziabile”, come anche i diritti delle donne a non essere violentate dalle tante forme di bullismo sociale e di femminicidio.
In verità è doveroso anche riferire la giustificazione del rapper il quale ha precisato – ovviamente da grande intellettuale ed ermeneuta contemporaneo (!) – che il rap, come genere letterario e stile musicale, «fa grande uso di elementi narrativi di finzione e immaginazione che non rappresentano il pensiero dell’artista» e, pertanto, non sarebbe possibile ascrivergli l’idea della violenza contro le donne: idea che egli stesso troverebbe insopportabile. Forse ci troviamo davanti a un filosofo incompreso! A un nuovo Nietzsche che diagnostica dove sta andando la cultura e l’umanità? Tuttavia, il punto dolente riguarda ciò che è stato da molti sottolineato: il potere di grande influenza che un musicista ha sulle nuove generazioni (specie sulle giovanissime). Quale messaggio arriverà ai più piccoli? Quale insegnamento si darà ai nostri figli se passasse l’idea (già oltremodo sdoganata e diffusa) che gli atteggiamenti più sono turpi e più portano al successo?
Resta comunque una sintesi che deve dare a pensare. Le canzoni pop non sono innocue. Hanno un valore educativo o diseducativo potente e performante che non può essere disatteso nell’annuncio del Vangelo ai giovani. Perciò, una buona teologia popolare – un pop-Theology – è attesa come servizio alla “carità intellettuale” (Antonio Rosmini) di cui oggi c’è bisogno più del pane nelle nostre comunità parrocchiali. Allora, al lavoro, al lavoro, per risorgere!
di + don Tonino, Vescovo