Pop-theology in cerca di autori

Verso una  pop-theology’s society

Nel suo Diario della Carità, Antonio Rosmini, traccia l’idea di costituire una “Società degli Amici”, della quale stende persino un regolamento (il 27 settembre 1819), chiarendo quale dovesse essere lo scopo fondamentale: «rendere gli uomini amatori della Religione Cattolica, e desiderosi di promuoverla per mezzo di essa stessa Società». Il vento del materialismo e dell’ateismo, già ai suoi tempi, correva veloce. Agire controvento, poteva significare solo attivare processi di “promozione della fede religiosa” per dare quella “direzione morale” o orientamento delle coscienze (specialmente delle giovani menti) che Rosmini stesso chiamerà “carità intellettuale”. “Rendere gli uomini amatori della Religione Cattolica” attraverso la “carità intellettuale”, a me pare una operazione (materialmente e formalmente) teologica che la “Società degli Amici” avrebbe dovuto assumere con responsabilità.

Rivolgendosi a chi? Se il “chi” sono le persone che avrebbero costituito la “Società degli amici”, di sicuro Rosmini aveva dei nomi a cui indirizzare l’invito. Potevano essere quei grandi ingegni del tempo, in tutti gli ambiti dello scibile, con i quali il grande Roveretano aveva una fitta corrispondenza, tra cui certamente il Manzoni. Credo tuttavia più interessante sottolineare il “chi” delle persone che avrebbero potuto usufruire del lavoro teorico di intelligenza dei presunti membri della “Società degli Amici” e cioè gli uomini: questi avrebbero dovuto “amare la Religione Cattolica”. Quindi tutti gli uomini, assolutamente tutti. Perciò quel progetto doveva essere una “comunicazione di divulgazione popolare” dei saperi. Un po’ come fanno oggi anche tanti studiosi in tanti campi del sapere scientifico, per esempio Carlo Rovelli per la meccanica quantistica.

Si coglie nell’intento divulgativo dell’opera di Rovelli, studioso di fama internazionale, attualmente impegnato a unificare le teorie di Newton con quelle di Einstein (chissà cosa ne verrà fuori!). Solo un grande scienziato è davvero un grande divulgatore. E, comunque, divulgare – al di là di ogni possibile fallimento nell’impresa- corrisponde a un preciso motivo morale: c’è di mezzo una istanza etica a cui, in coscienza, non ci si può sottrarre. Non si insiste mai abbastanza su questo aspetto che è il contenuto del primo punto del Manifesto della Pop-Theology (come una mappa in 10 punti per la scoperta del suo significato e, dunque, della sua definizione o, anche, del suo concetto): «Pop-Theology è “carità intellettuale” (A. Rosmini): l’impegno etico di traslocare le scoperte della scienza teologica in parole sensate perché giungano al cuore stesso del senso comune, dunque a tutti». Ma anche altri, penso a Tonelli, uno di quelli che hanno scoperto il bosone di Higgs. È tutta gente che ha capito, per il campo della scienza, come Rosmini per il sapere filosofico, che la filosofia è «vera pedagogia dello spirito umano». Perciò “società”, in The Rosmini society, vuol dire, nell’accezione del Rosmini: «un’unione di anime intelligenti».

Nello stesso spirito non si potrebbe oggi proporre la costituzione di una Pop-Theology’s society, una “Società degli amici della pop-Theology”?

Il Manifesto della pop-Theology scandaglia, in dieci punti, i suoi possibili significati.  Facendolo, individua anche tappe precise di impegno teorico e pratico, di servizio all’intelligenza critica della fede per un vissuto cristiano autentico. Una Pop-Theology’s Society potrebbe allora, progettualmente, contribuire alla disseminazione della teologia tra il popolo, perché la fede diventi vissuta “in modo adulto”. Diversi anni orsono i Vescovi italiani scrissero che la fede cattolica è adulta anche perché “pensata” e, dunque, non solo perché è fede teologale, ma anche perché è teologizzante. Da questo versante si dovrebbe riprendere, pastoralmente parlando, il nodo sempre inestricabile e sempre da interpretare del rapporto tra fede e cultura, tra ragione e fede (cfr. il progetto della Fides et ratio di Giovanni Paolo II, ma anche di Lumen fidei di papa Francesco). Una Società degli amici della pop-Theology potrebbe muoversi, sia teoricamente e sia pastoralmente, nel vasto campo semantico aperto dai dieci punti fissati nel Manifesto della Pop-Theology. 

Campo vastissimo e sempre aperto a ulteriori sviluppi, perché – anche un osservatore distratto se ne accorgerebbe- i dieci punti seguenti non sono fissi, come compartimenti stagni, ma dinamici e in framework. 

Grande il lavoro che abbiamo davanti. Sarà bello poterlo fare insieme, sinodalmente. È un sogno? Certo! E come disse il poeta: «Di sognare non smetterò, perché un tuo sogno son io» (Jonàs Galt). 

Il cerchio dell’amicizia culturale (è carità intellettuale prima e dopo tutto) si allarga e si apre in modo inclusivo a tutti gli uomini di buona volontà che amano pensare, perché viandanti in cerca della Verità (che non potrebbero cercare se non l’avessero già in qualche modo). Il punto 10 del Manifesto, sulla scia del pensiero di Karl Rahner, dice: «Pop-Theology si autopropone come vera teologia attenta alle “parole altre del diversamente credente o del non credente”, nella profonda convinzione che ogni uomo è, nella sua umanità, come una grammatica di una possibile autocomunicazione di Dio». 

Da qui l’appello e l’invito anche ai non credenti a mettersi in cammino con noi, per fare strada nel servizio all’umanità dell’uomo. Con l’ultima strofa di Rhymes and reason di John Denver: «And the song that I am singing/ is a prayer to non believers/ come and stand beside us/ we can find a better way» [E la canzone che sto cantando è una preghiera rivolta ai non credenti: venite e mettetevi accanto a noi e insieme troveremo una via migliore].

+ Antonio Staglianò, vescovo

Comments (22)
Add Comment
  • Antonio Staglianó

    Non mi dispiacerebbe che si intervenisse su questa proposta di una PopTheology ‘s Society. Si potrebbe infatti iniziare proprio da qui per creare quell’amicizia culturale indispensabile oggi per ritessere le relazioni tra le persone per la fratellanza universale e l’amore sociale cui ci convoca Fratelli tutti di Papa Francesco. L’occasione permetterebbe a chiunque di esprimere il proprio pensiero o anche una semplice opinione su “cosa” e su “come” questa Community particolare (perché costruita intorno all’idea di PopTheology e del suo primo Manifesto) dovrebbe lavorare. Ringrazio anticipatamente chiunque volesse intervenire. +A

    • Alessandro Paolino

      Buongiorno a tutti.
      Nell’editoriale del nuovo numero de “La Vita Diocesana”, il vescovo offre degli stimoli interessanti per la promozione – pastorale e culturale – della Pop Theology, quale via privilegiata per dinamizzare l’annuncio cristiano.
      L’editoriale del Vescovo stimola l’intelligenza critica, nella logica della “carità intellettuale” (A. Rosmini), cioè di un impegno “etico” (punto 1 del manifesto di PTh), teorico e pratico, al fine di “contribuire alla disseminazione della teologia tra il popolo, perché la fede diventi vissuta in modo adulto” (Mons. Staglianò).
      Sarebbe bello e utile – è anche quanto ha sollecitato il vescovo – raccogliere le vostre personali risonanze alla lettura dell’articolo del vescovo, così iniziamo a mettere insieme le nostre idee – libere, anche critiche, purché siano costruttive – che potrebbero “dare il la” alla nostra intrapresa.
      Grazie già da ora per la vostra disponibilità e collaborazione. A presto!

      Don Alessandro

  • Alessandra

    Questa originale chiave di lettura della realtà, richiama a mio avviso il concetto ambizioso di Teologia Ecosociale secondo l’accezione usata da Brofenbrenner…L’opera di Bronfenbrenner può essere letta come uno stimolo per gli studiosi dello sviluppo umano a progettare e attuare esperimenti di trasformazione finalizzati non tanto alla verifica di ipotesi, quanto piuttosto alla scoperta delle opportunità presenti nell’ambiente e della notevole capacità degli esseri umani di rispondere in modo costruttivo e spesso progressivo alle modificazioni introdotte».
    (Luigia Camaioni, 1986)
    Semplificando, potremmo dire cambiando il nostro modo di comunicare, riusciamo a recuperare dimensioni altre di comprensione umana che rendeno nuova la società attraverso la creazione di continue reti significative di accoglienza dell’ Oltre da noi..

  • don Francesco Cosentino

    Da tempo il Vescovo Staglianò riflette sull’impegno non più procrastinabile, teorico e pratico, di una riflessione teologica che si dissemina tra il popolo e che è popolare non nel senso di “meno specialistica”, ma nel senso di “più comunicativa”, cioè più capace di raggiungere tutti e a tutti comunicare la fede. Quando scrivo “da tempo”, però, mi ritorna alla mente un vecchio testo di Mons. Staglianò, che il Signore ha messo sulla mia strada come docente in Seminario, ed è “La teologia che serve”. Che serve, nel senso di una teologia che si fa servizio; ma “che serve” anche nel senso che c’è una teologia “utile” alla comunicazione del Vangelo e della fede e un’altra, arroccata nell’autoreferenzialità, che non serve. O serve solo alla vanità di alcuni, nonché ad alimentare quella che Rahner chiamava la “concupiscenza intellettuale”. Nessuno pensi, in temi indifferenti e frammentati come i nostri, che la teologia non serva più e che l’evangelizzazione possa prescinderne; ma nessuno pensi, al contempo, che ogni teologia possa davvero “servire”, possa cioè mettersi al servizio del Vangelo ed essere utile per il Popolo di Dio. Da qui l’importanza e anche l’affascinante avventura di una Pop-Theology.

    • Alessandro Paolino

      Pardon, Alessandra

  • Alessandro Paolino

    Ringrazio don Cosentino e Francesca per i contributi stimolanti che offrono prospettive entusiasmanti nella direzione di una Teologia più “incarnata”, “kenotica”, capace di “abbassarsi” per parlare quella “lingua del cuore” che Papa Francesco ha raccomandato alcuni giorni fa, ai catechisti (incontro con i collaboratori dell’Ufficio Catechistico nazionale della CEI): un possibile “dialetto” della fede che arrivi alla mente e al cuore di tutti. Mi pare che la Pop Theology abbia tutti i presupposti per orientarsi in questo sentiero di servizio al popolo di Dio

  • Don Salvatore Cerruto

    Il primo punto del Manifesto della Pop-Theology ideato dal Vescovo di Noto Antonio Staglianò individua l’essenza stessa della Pop-Theology nella “carità intellettuale” tanto cara a Rosmini. Carità intellettuale che, a sua volta, non è altro che “l’impegno etico di traslocare le scoperte della scienza teologica in parole sensate perché giungano al cuore stesso del senso comune, dunque a tutti”. Questa definizione, già in sé stessa, sembra venire incontro ed esprimere bene quel bisogno di chiarezza ed essenzialità che tutto il popolo di Dio dimostra di avere, a fronte di un insegnamento omiletico e catechetico tante volte percepito come astruso e avulso dalla vita reale. Lo stesso Rosmini, d’altra parte, sembra porsi il problema della necessità di una Pop-Theology in tal senso, quando critica quella dottrina cristiana che, appiattita sul razionalismo, non riesce più a parlare all’uomo nella sua totalità, ma solo alla mente: “[La dottrina cristiana] la si abbreviò ancora in un’altra maniera, cioè abbandonando interamente tutto ciò che spettava al cuore e alle altre facoltà umane, curandosi di soddisfare solo alla mente. Quindi questi nuovi libri non parlarono più oggimai all’uomo come agli antichi; parlarono ad una parte dell’uomo, ad una facoltà sola, che non è mai l’uomo: la scienza teologica ne guadagnò ma scemò la sapienza”. La Pop-Theology, dunque, può assolvere al suo compito di raggiungere “il cuore stesso del senso comune” in quanto porta in sé una carica sapienziale capace di parlare al cuore dell’uomo. Ma in cosa consiste questa dimensione sapienziale necessaria alla teologia? La risposta è da trovare nel necessario legame che la teologia deve avere con la vita morale dell’uomo. Ancora Rosmini in tal senso: “Ogni qualvolta si è voluto separare la scienza dalla virtù morale e si è preteso che quella dovesse andarsene da sola e bastare a sé stessa; ella s’è trovata a languire e morire”. La Pop-Theology, in definitiva, dovrà poter interpellare l’uomo nella profondità della sua coscienza, facendogli distinguere il bene dal male nella conoscenza di Gesù Cristo, in cui soltanto si trova la perfezione della “virtù morale”.

  • VITO BARRESI

    Grazie a Mons. Staglianò, per il suo costante e straordinario pungolo a pensare il noi tra gli altri. La crisi italiana ed europea non è meramente ideologica ma strutturalmente intellettuale. Alcuni muri interiori, freudiani anzi anche junghiani, sedimento della memoria e dell’inconscio collettivo e comunitario, sono letteralmente franati. Gli intellettuali sono stati cancellati dai nuovi sistemi mediali, i chierici non possono più tradire perchè sono stati sterminati. Molti intellettuali che vagano orami senza anima, spesso nel loro arrogante furore non vogliono ammettere di essere caduti nel pozzo più profondo della povertà umana che è quella spirituale. Partendo da questa realtà c’è solo il coraggio del primo passo per affrontare un percorso di nuova comprensione dell’attualità, di presa in carico dell’emergenza morale, l’invocazione muta di carità che si fa largo quasi come un doloroso lamento dantesco tra gli intellettuali italiani ed europei. La Chiesa deve aprire le parrocchie non ai laici ma gramscianamente al ceto intellettuale italiano impoverito, un vero e sterminato ‘lumpenproletariat’ , un iceberg invisibile di sofferenza che sta di fronte alla politica e alle istituzioni. Spero che la proposta rosminiana di don Tonino si faccia realtà e che insieme si formi una società che sappia dare nuova energia e vigore spirituale alla carità intellettuale…

  • Fra Giuseppe Maria

    Da fra Giuseppe, biblista e sacerdote, dei piccoli frati di Gesù e Maria: Davvero interessante carissima Ecc.za! Quella “carità” intellettuale che muove le “anime intelligenti” con diversi livelli di sapienza a comprendere sempre più il mistero di Cristo che “coinvolge” ogni uomo. Un progetto molto “stuzzicante”. Quella stessa intelligenza (in greco συνεσις: capacità di comprensione, senno, intelligenza, perspicacia) di cui era pieno lo stesso Gesù ad appena 12 anni e di cui ci parla l’evangelista Luca: “E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza (συνεσις) e le sue risposte” (Lc 2,47). La stessa συνεσις di cui san Paolo dice che è indispensabile per “conoscere il mistero di Dio, che è Cristo” (Col 2,2). Grazie ancora di tutto, Dio possa elargire sempre più sapienza ed intelligenza (cf. Col 1,9) a servizio di questo progetto di divulgazione. Pace e bene.

  • suor Cometa

    Grazie Ecc.zza. Fanno riflettere le parole di Rosmini… “carità intellettuale”, in effetti mi fa pensare a Gesù: «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). Riconosco che sempre più c’è bisogno di questa carità, soprattutto in quei luoghi poveri della conoscenza di Cristo.

  • sr. Stella

    “Il cerchio dell’amicizia culturale (è carità intellettuale prima e dopo tutto) si allarga e si apre in modo inclusivo a tutti gli uomini di buona volontà che amano pensare, perché viandanti in cerca della Verità (che non potrebbero cercare se non l’avessero già in qualche modo)”. Credo che queste parole riassumano chiaramente quale sia lo scopo della Pop-Teology. E’ una buona opportunità per tutti coloro che si sentono animati dalla carità intellettuale, e vogliono dare il proprio contributo per allargare ancora di più il cerchio dell’amicizia culturale, per una società migliore.

  • Fernando Bellelli

    Bella e stimolante la connessione tra la Pop-Theology e il pensiero di Rosmini! Dal punto di vista delle mie ricerche è per me significativo riflettere sul come e perché la filosofia, la pedagogia e le scienze umanistiche, in specie nel pensiero di Rosmini posto in dialogo con la contemporaneità, contribuiscono alla delineazione dell’epistemologia inter-multi-trans-disciplinare della Pop-Theology!

  • Suor Veronica Maria, psgm

    Ho letto con molto interesse l’articolo di S. E. Mons. Staglianò. In particolare ho trovato entusiasmante l’idea di poter concretizzare una “Società degli amici”, della quale i fruitori (ossia il “chi”) non sarebbero tanto quanto gli ingegni del tempo o solo i pochi intellettuali membri – che finirebbero inevitabilmente col parlare fra loro, con linguaggi accessibili esclusivamente a loro, tentazione questa (ahimè!) assai diffusa – ma l’universalità di tutti gli uomini. Una teologia accessibile a tutti, e proprio per questo (pop-)olare, esattamente come il Vangelo – da sempre – richiede di essere annunciato: <> (Mc 16, 15). Aspetto questo, espresso molto bene e con fermezza, nel punto n. 3 del Manifesto, il quale recita: <>. La rotta, le coordinate e la meta di questo percorso mi sembrano siano state delineate in modo chiaro e lungimirante, adesso tocca a ciascuno di noi essere altrettanto creativi nel trovare e sperimentare modalità pratiche, efficaci e concrete, per far giungere la pop-theology nelle strade, nelle case, all’intelligenza del popolo.

  • Frate Volantino

    Si c.mi, come già detto da Sua Ecc.za Antonio: “l’impegno etico di traslocare le scoperte della scienza teologica in parole sensate perché giungano al cuore stesso del senso comune”,  ossia al popolino; una vera Teologia del popolo, tutto questo è chiaramente un’intuizione dello Spirito. Non a caso già il nostro Maestro stesso – Rivelatore del Padre all’umanità tutta – nel suo linguaggio Teologico per antonomasia, parlava ai costruttori con la parabola della testata d’angolo, ai contadini con la parabola del seme, ai pescatori con quella dei pesci, ai pastori quella delle pecorelle, ed ecc… così anche il nostro dire di Dio contemporaneo (teologia post-moderna) sia di parlare, anzi, di tradurre in concetti più semplici al popolino, le sublimi parole dell’amore Eterno ed infallibile di Dio, anche attraverso il canto popolare ed ecc.. come fa il nostro Vescovo Antonio. In tal modo si otterrà una nuova alfabetizzazione teologica comprensibile a tutti, non più astratta da sembrare “oppio dei popoli” (Marx) o “sonno dei popoli” (Nietsche), ma una vera “sveglia dei popoli” che giunge diretta alle orecchie e ai cuori di chi cerca con serietà la strada dell’eterna Felicità!

  • Fra' Picchignito

    Molto interessante, Sua Ecc.za, questo concetto di “Pop-Theology”.

    Indubbiamente, sappiamo come l’auspicabile incontro tra noi uomini, la sanità/santità tanto desiderata delle nostre relazioni interpersonali, sociali, culturali, intellettuali e spirituali che siano (quando si vuole parlare, com’è il caso, di quello che è realmente umano e umanizzante, nel vero senso dell’universalità del termine), non può prescindere di una sempre più reale e autentica – santificabile e santificante – relazione dell’uomo con il Suo Creatore: tale dinamica “teandrica”, come sappiamo, si muove dall’incontro reale con Dio allo stare insieme con Lui (cfr. Mc 3,14; Gv 1,39); dalla maturazione (frutto di tale relazione discepolare) alla conoscenza di Dio (cfr. Gv 8,31-32). In altre parole, l’umanità può diventare sempre più umana soltanto nella misura in cui è anche “teologica”.

    Emblematico il principio teo-antropologico del Concilio Vaticano II: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo […]. Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (“Gaudium et spes”, nn. 22.41).

    Quando parliamo di “Theology”, sicuramente, parliamo di conoscenza reale di Dio.
    Come si potrebbe diversamente parlare di “teologia”, di conoscenza reale di Dio, se il teologo non l’avesse almeno incontrato per, vivendo insieme con Lui, poterLo – per quanto possibile – sempre più conoscere? “Theology” implica non solo la “fides quae” come anche la “fides qua”; oppure, per dirlo con la nota espressione newmaniana, implica non solo l’assenso nozionale come anche l’assenso reale, frutto dell’esperienza (J.H. Newman).

    “Pop-Theology”?
    Certamente! Anche perché, ne siamo consapevoli, quando Gesù «costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con lui», lo ha fatto «per mandarli a predicare» (Mc 3,14) e per rendere testimonianza di Lui (cfr. At 1,8), della Sua Passione, Morte e Risurrezione (cfr. At 3,15) e di «tutte le cose da Lui compiute» (At 10,41).

    Tuttavia, come Lei ricorda spesso, quando «la teologia offre dunque il suo contributo», lo fa «perché la fede divenga comunicabile»[1]; oppure, come diceva il francescano Maksym A. Kopiec: «Tendendo verso l’acquisizione di una intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio (identità), il teologo è chiamato all’annuncio della stessa Parola, comunicandola e rendendola intelligibile agli altri (relazionalità)»[2]. Memorabile, Sua Ecc.za, la sua nota anafora retorica: “A che serve una teologia che non serve?” (cfr. A. Staglianò).

    In realtà, se ci pensiamo, potremo chiederci:
    Potrebbe essere realmente “teologica” una “Teologia” che non sia – in un certo senso – anche “Pop-Theology”? Oppure, potrebbe l’umanità essere realmente “Popolo”, effettivamente “ri-unita” nel Signore, se non è concretamente “teologica”?

    In conclusione,
    concedetemi – anche a me – un’anafora: Dio si fa conoscere per farsi conoscere.
    Allora, anche il teologo, se cresce personalmente nella conoscenza di Dio, lo faccia anche per farLo conoscere sempre più.

    —————–
    [1] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione “Donum Veritatis” (24 maggio 1990), n. 7.

    [2] KOPIEC MAKSYM ADAM, “Fede, testimonianza e nuova evangelizzazione. La teologia di fronte alle sfide odierne”, in: “Antonianum” 88,4 (2013), p. 601.

  • Matteo Inzaghi

    La Cultura non è davvero tale, né può pretendere di acquisire valore sociale, se si presenta in vesti elitarie o esclusive !e quindi escludenti). L’unica autentica cultura è Popolare, perché rende semplici, quindi accessibili a tutti, concetti complessi, così come idee, sentimenti, sensazioni e pulsioni, che, una volta decifrati e declinati in termini popolari, si aprono alla quotidianità e alla serena interpretazione di ciascuno. La Pop Theology di Monsignor Antonio, a me, attraverso l’interessante intervista che ha avuto la cortesia di rilasciarmi, ha comunicato soprattutto questo.

  • Don Alessandro

    Le forme pratiche della Pop-Theology – che non si può liquidare come “teologia delle canzonette” – dovrebbero attingere alle risorse della “cultura popolare” secondo i registri “affettivi” della musica, della poesia, dell’arte, della letteratura, sviluppandosi “con l’immaginazione della ragione” (punto 2 del Manifesto della Pop-Theology), una categoria fondamentale che delinea ancora più decisamente la mission di una Teologia più incarnata, molto cara anche a Papa Francesco, il quale, lo scorso 27 marzo 2020, durante l’indimenticabile preghiera in piazza San Pietro in piena pandemia, ha detto che proprio questo tempo segnato dalla crisi, è un “tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci”.
    Per monsignor Staglianò la Pop-Theology è anche “teologia dell’immaginazione”, “ampliamento della ragione nel suo esercizio (Pop-Theology 4), “incarnazione della ragione” nel vissuto umano con i suoi drammi, forza di “empatia” che è capacità di “sentire l’altro”, generata dall’amore, motore che muove l’immaginazione quale “potenziamento della realtà, spinta in avanti, perché si ricrei un significato delle cose sempre più profondo, a venire” (Pop-Theology 4)
    Nell’odierno divorzio tra fede e cultura, appare più che mai urgente un “aggiornamento” della comunicazione “tradizionale” della fede cristiana, “perché si possa creativamente immaginare un sentiero sul quale mettersi a camminare, per attendere il miracolo di un incontro nel quale comunicare (cioè ascoltare, accompagnare, discernere e orientare) senza costrizione, oltre ogni proselitismo” (A. Staglianò, Oltre il cattolicesimo convenzionale). Questo è quanto – umilmente ma con tenacia – la Pop-Theology si propone di realizzare, a servizio della gioia del Vangelo.

  • Fabio Dipalma

    Leggere della “Società degli amici” auspicata da Rosmini ha riportato alla mia mente un passaggio dello straordinario discorso pronunciato da Paolo VI a conclusione del Concilio Vaticano II, nel quale la realtà del Concilio veniva descritta con queste parole: “pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, alla quale il ricorso alla esperienza vissuta e l’impiego del sentimento cordiale dànno più attraente vivacità e maggiore forza persuasiva: ha parlato all’uomo d’oggi, qual è”. Lungo questa direttrice, una Pop-Theology non può che essere narrazione rammemorante del Vangelo e intrisa di Vangelo. E il Vangelo non parla nè soltanto nè prevalentemente alla testa delle persone, ma a ogni persona in ogni sua dimensione. Ecco perchè una narrazione delle intersezioni possibili tra ragione e fede (e una qualunque apologetica teologica di quelle intersezioni) è povera, e in definitiva insostenibile: giacchè il referente teologale della fede è non la ragione umana, ma la rivelazione del mistero della vita. Secondo l’incalzante introduzione della prima lettera di Giovanni: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi”. Annunciare l’udibilità, la visibilità, la tangibilità del Mistero della Vita, che è il Figlio-nel-Padre donato al mondo: può una teologia asfitticamente rinchiusa nel binomio ragione-fede farlo? No. Perchè dopo la stagione del “je pense” cartesiano e postcartesiano, l’uomo ha riscoperto d’essere carne. Ecco “il primo uomo concreto della storia della filosofia”, ha scritto Rosenzweig di Nietzsche. “Io non penserò mai così…alzo le mani”, direbbero (parafrasandoli) Fabi/Silvestri/Gazzè. E allora forse c’è da ricominciare a narrare non soltanto del Logos che si fa carne, ma della carnalità del Logos. In certo modo è perfino un tema tradizionale (nonostante gli uomini di Chiesa, verrebbe da dire), sin da Ireneo e Tertulliano: ma è nel ‘900 che la fenomenologia tedesca e francese, e oggi ancora Hadjadj, Kristeva, e diversi altri autori, alcuni perfino italiani, forniscono strumenti utili a scassinare la porta carraia del pensiero oggettivante, in direzione di radure nelle quali luce nuova possa apparire. Perchè non c’è gloria nella sola episteme. In verità, è anzi nella doxa-opinione che la doxa-gloria appare, con tutto il proprio peso specifico: è la forza del “forse” pronunciato da tutti coloro che, faticosamente ma fiduciosamente, sanno che la verità della vita non è linguisticamente esauribile. Perchè “il cuore ha ragioni che la ragione non conosce”. Le verità più grandi tralucono, già in questa vita, da dentro ogni carne risorta abitata dallo Spirito. E forse ancor di più, tra i drammi della nostra storia, da dentro ogni carne crocefissa, in cui abita il Figlio dell’uomo (Mt 25). Anche una canzone, nella misura in cui è narrazione e magari perfino rivelazione della vita (esiste infatti una “misura alta” della canzone, allo stesso modo in cui esiste una “misura alta” della vita cristiana, che si chiama santità), può in qualche modo essere una “parola di Dio” pronunciata oggi. Chi fosse scettico, potrebbe forse ascoltarsi mentre riascolta ancora e ancora le proprie canzoni preferite: non sente forse il cuore ardere e lo spirito esultare, quasi come nella scena di Emmaus, o nell’annuncio dell’angelo a Maria? Ma la domanda su quale Dio possa rivelare te a te stesso, e in questo modo rivelare Se stesso, in “una stupida canzone”, non può che intrecciarsi con la domanda su quali forme del fare canzone possano intercettare una qualche modalità del rivelarsi di Dio. “Canzoni che ti salvano la vita/Che ti fanno dire ‘no, cazzo, non è ancora finita’/Che ti danno la forza di ricominciare/Che ti tengono in piedi quando senti di crollare” (Brunori Sas): non si attende nè tantomeno si pretende che con ogni canzone avvenga questo, ma non mi sembra siano molti gli artisti in circolazione che, proprio esprimendo se stessi, facciano ad altri esseri umani da specchio, consentendo loro l’accesso a una maggiore esperienza e consapevolezza di sè. Certo, la danza come espressione corporea di sè si pone al di là (appunto) delle formulazioni linguistiche: e le feste popolari hanno il permanente compito di ricordarlo a uomini “di fede” troppo spesso tristi, annoiati e asciutti. Con buona pace dei benpensanti, Gesù a Cana non poteva che ballare da Dio! Ma di fronte a certi modi di fare canzone, che non sanno far altro che rifugiarsi dietro le banalità del sole-cuore-amore, così come di fronte a certe pastorali e a certe teologie che a quelle banalità corrispondono perfettamente sul proprio specifico piano, è sempre bene prendere posizione: “le verità cercate per terra da maiali/Tenetevi le ghiande/Lasciatemi le ali”. Grazie, don Tonino, per il tuo tentativo di allestire spazi buoni che vadano in questa direzione.

  • Tonino Solarino

    Sopratitolo: pop theology e  carità intellettuale. 

    Titolo: Un pensiero forte, relazionale, progettuale. 

    Il vescovo Staglianò, nel primo punto del suo manifesto per la pop theology,  ci invita a riflettere sull’ importanza della  carità intellettuale e chiede a ciascuno di noi di farsene carico.
    Immediatamente mi è risuonato l’appello di san Paolo: ” non conformatevi alla mentalità del secolo.”
    La carità intellettuale è anche questo. È discernimento, è riflessione  critica è teologia della realtà per riconoscere cosa, nel tempo che viviamo, ci allontana dalla possibilità di una vita vera, buona, giusta, gradita a Dio. 
    Quando ci omologhiamo alla mentalità del secolo, alle sue mode,  ai suoi “comandamenti”,  ai suoi miti, alle sue bugie contribuiamo ad alimentare  inconsapevoli  sofferenze. Come spiegare diversamente le inanerrabili tragedie dei secoli che ci siamo lasciati alle spalle,  se non con l’inconsapevole omologazione alla mentalità del tempo? Come è stato possibile, per esempio, che nella cristiana Italia e nella cristiana Germania i nostri  “bisnonni”  siano stati complici diretti o indiretti, consapevoli e più spesso inconsapevoli  della tragedia dell’olocausto? 
    Come è stato possibile che rispettabili padri della chiesa abbiano, nel passato,  torturato e condannato a morte migliaia di persone per eresia perché costoro cercavano di vivere secondo la propria  coscienza e con pensieri diversi? 
    Di noi i nostri nipoti cosa diranno?
    Ci accuseranno sbigottiti! “Come è stato possibile che abbiate  lasciato morire di fame milioni di esseri umani? ” 
    “Come è stato possibile che abbiate depredato, sporcato, inquinato la natura in modo così brutale? 
    Come è stato possibile che abbiate lasciato annegare o morire di  freddo migliaia di persone che bussavano disperate alle vostre porte? 
    Come è stata possibile l’ingiustizia di aver lasciato la totalità delle ricchezze in mano a poche famiglie e  a poche multinazionali lasciando negli stenti e nella lotta per la sopravvivenza quotidiana miliardi di esseri umani? 
    La risposta è che è stato possibile per conformismo alla mentalità del secolo,  per aver accettato acriticamente perverse ideologie economiche e politiche, per aver creduto buono ciò che non lo era! 
    Siamo chiamati proprio per questo a costruire una teologia “dei segni dei tempi” e a recuperare la dimensione della carità intellettuale. 
    Una teologia dei segni dei tempi capace di svelare l’infondatezza dei “nuovi comandamenti”  e di illuminare le bugie che scambiamo per verità. 
    “Consuma e sarai felice”, “adora solo te stesso”, “quello che conta è avere successo”,  godi più che puoi”, non avere bisogno di nessuno” sono alcuni dei falsi miti che la maggioranza ha fatto propri. In politica economica, poi, c’è un mito, un moloch  che alimenta grandissime  ingiustizie  e che va contrastato con forza: ” la libertà di mercato non deve avere limiti”…
    Le ragioni di spazio non ci permettono di soffermarci su ciascuna bugia. Mi piace qui suggerire un libro del cardinale di Bologna, Zuppi intitolato provocatoriamente: “odierai il prossimo tuo” per ricordarci come quella di questo secolo sia una mentalità individualista, narcisista e paranoica che  sta uccidendo l’amore e il futuro. 
    Abbiamo bisogno di leggere i segni dei tempi,  di convertire quelli che Lonergan chiama i peccati strutturali di cui raramente i cristiani ci confessiamo e  abbiamo un grande bisogno di carità intellettuale.
    La carità intellettuale, più ancora di quella politica,  è carità in grande perché, la sua assenza o la sua presenza, condiziona diversamente il consenso politico, le scelte e gli stili di vita, i comportamenti.
    È per questo motivo che la carità intellettuale  non può registrare assenze e peccati di omissione da parte del popolo cristiano. Quando viene meno la carità intellettuale accadono rovinose tragedie. 
    In  questo sfondo il vescovo Staglianò colloca la “sua pop theology” invitandoci a vivere  una teologia incarnata, a ricucire le fratture tra fede e vita, a vivere con pienezza e armonia le dimensioni della fede, della ragione e della affettività, a testimoniare un pensiero forte, relazionale, progettuale. 
    1) Un pensiero forte.
    Un pensiero è forte perché è capace di abitare al crocevia tra scienze umane e  scienze teologiche con la consapevolezza che se la scienza e la teologia  dicono cose contrapposte o siamo in presenza di cattiva scienza o siamo in presenza di cattiva teologia. 
    Ha scritto Vattimo che viviamo il tempo del pensiero debole. È altrettanto vero che viviamo il tempo del pensiero religioso debole. Un pensiero forte è espressione di identità e di integrità ed è la premessa  necessaria per ogni  confronto dialogico. Un pensiero forte va oltre i facili relativismi per vederci impegnati  a custodire, insieme, l’umano nell’uomo. 
    2)Un pensiero relazionale. 
    Se il pensiero non si fa relazione è sterile. La relazione è sostanza. E’ il cuore del cristianesimo che è radicalmente relazionale fino alla disponibilità a dare la vita per salvare e custodire l’altro. Se il pensiero non è relazionale diventa astratto, sterile elitario. 
    Senza mentalità e sensibilità relazionale la forza degenera in  violenza, supponenza, saccenza.  La religione diventa lotta di potere e strumento di proselitismi. Lo stesso Crocifisso diventa un oggetto contundente, un’arma per colpire l’altro.  
    La forza dell’identità ha bisogno di essere salvata  dalla relazione. Ha bisogno di essere salvata dell’umiltà relazionale. L’umiltà non è un un atteggiamento intrapsichico o depressivo. Coincide con  la capacità di  stare in ascolto e fare spazio all’altro, a Dio, alla realtà.  Ha scritto Bonhoeffer che chi ascolta non combatte. Aggiungiamo noi che l’unica lotta che vale la pena di combattere è quella contro noi stessi e i nostri pensieri egocentrici ed egolatrici che ci impediscono e compromettono la qualità della relazione.
    3) Pensiero progettuale.
    Non basta saper leggere i segni dei tempi e sottrarsi ai conformismi. Non basta farsi prossimo con continuità, forza, umiltà, accoglienza. Occorre  il dono della profezia. Occorrono visione progettuale e organizzazione puntuale e dinamica. Occorrono ” pensieri lunghi” e capacità di pianificare le azioni necessarie.
    Colpisce che la chiesa pur essendo così capillarmente presente nel territorio, pur disponendo di beni e risorse  sia diventata così ininfluente.  Sono tanti i motivi di questa progressiva marginalità. Sicuramente un motivo va ricercato nella difficoltà a creare al suo interno e al suo esterno legami sapienti, progettuali e azioni condivise.
    È interessante che il vescovo nell’editoriale pubblicata nel precedente numero di vita diocesana abbia invitato a creare legami comunitari tra gli operatori culturali, tra gli artisti e tra tutti coloro che si ritrovano nell’intuizione della pop theology. Confortano le risposte di adesione al suo invito che cominciano a pervenire…
    L’uomo post moderno non ha nei confronti della Chiesa  un pregiudizio negativo o positivo a priori. Porta nel mondo la sua sete di felicità. Gli capita spesso  di imbattersi  in risposte sbagliate, ma la sete resta. Questa sete i mercanti provano a manipolarla, gli artisti provano ad esprimerla. I cristiani dentro la vita, con la testimonianza di un pensiero forte, relazionale, profetico che trova in Gesù di Nazareth il suo compimento offrono al tempo che ci è dato di vivere la buona notizia della salvezza. 
    Tonino Solarino

  • Antonio Staglianó

    PopTheology è teologia che intende “prendersi cura” della fede del popolo – della quale “sente” la responsabilità- attraverso una immersione diretta nella “cultura popolare”, perché il cristianesimo sia (come è e come deve diventare) “forza critica”: 1. (Ad intra) nei confronti dell’alienazione religiosa, tipica delle forme pratiche del cattolicesimo convenzionale, in tanti processi di abbellimento del “corpo ecclesiale”, con la progressiva perdita (fino a snaturare del tutto) delle bellezze dell’ “anima cristiana”. 2. (Ad extra) verso tutti i fenomeni di alienazione sociale che – dentro “strane sante alleanze con il religioso sacrale- imprigionano la libertà delle persone in tante forme di barbarie dal volto umano, creando “schizofrenie nella coscienza cristiana”, dove si continuerebbe a “credere in Dio”, adorandolo nella verità (dottrinale), ma disonorandolo nella sua verità incarnata (=l’umanità bella e buona di Gesù) nel non voler diventare “custodi dei fratelli tutti”.
    Per questa via, la PopTheology si sviluppa nell’orizzonte di due finalità o prospettive (euristiche): 1. (Ad intra) impegnandosi a deprivatizzare la fede, mostrandone la sua interiore dinamica sacramentale, comunitaria, sociale; 2. (Ad extra) mostrando la sua inevitabile dimensione altamente politica.

    • Don Alessandro

      Pop Theology come “prendersi cura” della fede del popolo. Accolgo questa bella suggestione del vescovo Antonio e da prete mi interrogo su tutte quelle volte che noi sacerdoti non siamo stati attenti a questa “cura” pastorale nelle nostre omelie.
      Qualche giorno fa, un parrocchiano viene in sagrestia e mi dice: “Padre ho ascoltato un programma religioso in cui hanno parlato della Quaresima come un tempo di sacrificio. Che vuol dire? In che senso?”.
      Ho capito allora che spesso le nostre parole attinte al dizionario del “sacro e dintorni” non dicono più nulla a un cattolicesimo già fiacco e “convenzionale” e neanche a un parrocchiano come quello che mi si è presentato, affamato di risposte vere, incarnate, che intercettino la vita e non di prodotti preconfezionati.
      Sacrificio? Forse neanche il prete ha idea della portata di questa parola, che risulta essere oggi, all’orecchio di chi ascolta “flatus vocis”, semplice “emissione di fiato”.
      Dove voglio arrivare? Questa cura di cui parla il vescovo non dovrebbe in primis curare il nostro linguaggio così “clericale” e “sacrale”, tanto ampolloso, “barocco” (visto che siamo a Noto), quanto – il più delle volte – sganciato dall’esperienza del vissuto umano?
      Ho detto sacrificio, per non dire il disagio di noi preti a parlare dello scandalo del male, del dolore innocente, della morte, ricorrendo talvolta a immagini imbarazzanti che fanno “poesia” sulla sofferenza, come quando il prete consola una madre colpita dal lutto di un figlio e le dice, dall’alto della “sua” teologia: “Dio ha preso il fiore più bello” o peggio ancora: “È la volontà di Dio”.
      Questa “grammatica” già pronta e adattabile di volta in volta alle situazioni che ci si presentano, dimostra l’inadeguatezza di una “teologia” del dolore, incapace di parlare al cuore e di essere un balsamo per le ferite umane.
      Anche certo “dolorismo” cattolico che sovente snatura il messaggio gioioso e liberante del Vangelo, mortifica l’annuncio cristiano e ne blocca il dinamismo missionario.
      Cura del popolo di Dio… “medicina” della Pop Theology.
      Un esempio umilmente propongo a proposito della questione iniziale, circa la parola “sacrificio” apparsa così indecifrabile alla comprensione del mio parrocchiano.
      Come posso declinare la parola “sacrificio” dal “dizionario del sacro e dintorni” al linguaggio “popolare” (“dialetto della fede” cfr Papa Francesco) del cuore, degli affetti, dell’empatia relazionale? Penso alla mamma, al suo “sacrificio” quotidiano per educare e far crescere i figli, a ciò che è disposta a donare, senza sconti, per la loro felicità. Potrei continuare con i padri, gli educatori, i sacerdoti, i medici e i volontari in questo tempo di pandemia, al loro “sacrificio” che è un “sacrum facere”, cioè un “fare sacro” le cose, le relazioni, le azioni, i pensieri, le persone a partire dall’amore che alimenta ogni “sacrificio”.
      Forse – con questa “traduzione popolare” (ecco il compito della Pop Theology), potremo dare corpo a questa “cura” della fede del popolo di Dio

  • Padre Fulvio Moltisanti

    Divulgazione : non dobbiamo aver timore di questo termine se vogliamo che la Parola di Dio e i principi della religione cattolica giungano al cuore di tutti .
    Il Vangelo resta sempre lo stesso , il messaggio era valido ieri e continua oggi a costituire un valore fondamentale nella vita di tutti gli uomini ma non v’é dubbio alcuno che debba essere alla portata del linguaggio delle persone alle quali é diretto e in particolare dei giovani che utilizzano registri comunicativi assai diversi da quelli tradizionali con i quali la Chiesa ha proposto l’Annuncio .
    D’altronde con l’avvento della cultura di massa molti si sono posti il problema della dinamizzazione della comunicazione nei vari settori della conoscenza perché il messaggio sia ascoltato e fatto proprio da strati sempre più larghi di fruitori : lo hanno fatto gli storici ( come non citare la Storia d’Italia del grande giornalista e scrittore Indro Montanelli e più recentemente Alessandro Barbero ) , gli scienziati Stephen Hawking, Antonio Zichichi e tanti altri e i divulgatori scientifici in generale come Piero e Alberto Angela . In questo campo nelle nostre fila un antesignano della comunicazione religiosa fu padre Mariano , il frate cappuccino che iniziava le sue rubriche televisive – semplici e dirette ma frutto di una rigorosa preparazione – andate in onda tra gli anni ‘ 50 e gli anni ‘ 70 con ” Pace e bene a tutti “. Ebbene costoro si sono posti il problema di una comunicazione che fosse intellegibile non solo agli esperti dei vari rami del sapere , ma raggiungesse una platea molto ampia di persone rendendo semplice , ma non banale , la comunicazione .
    Allo stesso modo la nostra teologia manterrá inalterati i principi della religione cattolica , ma dovrá annunciare a tutti la fede per farsi servizio e non correre il rischio della autoreferenzialitá e , in definitiva , della inutilitá.
    La ” teologia popolare ” si incarica di rinnovare la predicazione cristiana per farsi ascoltare e comprendere da tutti , per parlare all’uomo di oggi utilizzando i nuovi registri linguistici propri dell’odierna cultura e quindi della letteratura , della musica popolare , dei nuovi mezzi di comunicazione , delle reti sociali ( i cosiddetti social- network ) .
    Un altro caposaldo della nostra comunicazione sia l’aurea brevitas raggiungibile non giá mediante una riduzione quantitativa della materia , quanto piuttosto attraverso una sua consapevole ristrutturazione e razionalizzazione . E ciò in nome di un ideale di concisione e di sintesi che scaturisce fondamentalmente dalla ricerca di chiarezza , semplicitá , pulizia logica e formale che abbini alle esigenze quantitative precise finalitá qualitative .
    Tutto ciò renderá attuale e quindi utile il nostro messaggio e permetterá di rendere accessibili a tutti l’annuncio della Parola .